Chi era Moussa Diarra, il ragazzo di 26 anni ucciso in stazione a Verona, e tutte le domande ancora senza risposta.
Moussa Diarra, 26 anni, originario del Mali, viveva al primo piano dell’edificio occupato noto come “Ghibellin Fuggiasco”, condiviso con circa 40 migranti provenienti da vari paesi africani. Quella stessa domenica li doveva raggiungere a Quinzano, nella villa che stanno riaprendo e risistemando con il Collettivo Paratodos. Ma la sua vita si è tragicamente interrotta davanti alla stazione di Verona Porta Nuova.
Diarra era arrivato in Italia nel 2016 dopo un lungo viaggio dal Mali, attraverso l’Algeria e la Libia, per poi approdare a Lampedusa. Come molti altri migranti, aveva lavorato duramente nei campi, raccogliendo uva e mele in condizioni di sfruttamento, con salari di appena 300 euro al mese per lunghe giornate di lavoro. Negli ultimi mesi, però, qualcosa era cambiato. Tre mesi fa era morto il padre di Moussa, in Mali. E da lì era cominciata, forse, una forma di depressione. Il fratello ha raccontato che Moussa non stava bene, lamentava mal di testa, ma non si era mai sottoposto a visite mediche approfondite.
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La vita di Moussa, ricorda chi lo conosceva, era segnata da silenzi e preoccupazioni. Nonostante ciò, non era mai stato violento, né coinvolto in episodi di droga, contrariamente a quanto insinuato da alcune fonti. “Non fumava nemmeno una sigaretta, non beveva”, afferma con convinzione chi lo conosceva.
Così lo descrive la Ronda della Carità, che Moussa frequentava: “Timido, sempre sorridente, gentile e rispettoso. Mai una parola di troppo durante i nostri incontri. Un lavoratore, regolare. Triste e schivo negli ultimi tempi, non siamo stati capaci a sufficienza di essere quella comunità che rasserena e supporta gli amici nelle difficoltà. Non sappiamo che cosa sia successo nella tua mente sabato sera, siamo solo certi che non doveva accadere di morire ammazzati da un colpo di pistola al petto”. Ma allora, che cosa è successo, quella maledetta domenica mattina?