Gli strumenti del mestiere delle “lavandare” di Quinzano e Ponte Crencano sono gli ultimi ben conversati in città.
Fino alla metà del secolo scorso gli angoli della città che ospitavano i lavatoi erano un punto d’incontro per tutta la collettività, che si riuniva intorno alle donne che lavavano i panni, le cosiddette “lavandare”, per soddisfare la curiosità di conoscere aneddoti e segreti dei signori attraverso i racconti delle domestiche. Oggi di quei luoghi non restano che poche tracce, come per esempio nelle vie Leno, a Ponte Crencano, e Villa, a Quinzano, dove si conservano ancora le file di lavatoi nella loro originaria disposizione mentre in piazza Lavello, sempre a Quinzano, dei numerosi lavabi in pietra che occupavano quasi interamente l’area centrale, dove oggi c’è un parcheggio, e dai quali deriva la toponomastica del luogo rimane un solo esempio. Sui lavatoi comunali di via Leno è ancora possibile leggere, sulla targa in pietra che sovrasta la copertura, la data della loro inaugurazione, il primo aprile del 1931.
Ma il lavoro della “lavandara”, che per molte donne, come nel caso di Avesa, dove questa attività stava alla base di una fiorente economia locale, poteva diventare anche una vera e propria professione, non concerneva solo il lavaggio dei panni nei pressi dei lavabi. Essa prevedeva infatti anche la produzione del sapone, realizzato in casa adoperando il grasso del maiale, l’olio e la soda, l’impiego di un grosso quantitativo di cenere, utilizzata per candeggiare i panni, e della creta, necessaria per sgrassare i lavatoi.
A sancire il drastico ridimensionamento di questa pratica manuale fu il progressivo diffondersi della lavatrice nelle abitazioni domestiche tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, che comportò anche alla graduale conversione degli spazi prima destinati al lavaggio dei panni in nuove destinazioni d’uso. I lavabi di Quinzano e Ponte Crencano, infatti, sono gli ultimi ad essere ben conversati in città.